Pubblichiamo stralci della prefazione di Salvo Vaccaro al libro di Murray Bookchin Democrazia diretta (Elèuthera, 2015, pp. 104, € 12,00).
Murray Bookchin (1921-2006) è stato uno dei pensatori radicali più influenti del XX secolo. Le sue idee, maturate nel corso di decenni in cui ha saputo intrecciare in maniera feconda attività politica militante e riflessione teorica, sono oggi diventate pratiche quotidiane diffuse in vari ambienti del pianeta, anche laddove nessuno ha mai letto un rigo dei suoi libri.
La sua attività politica e sindacale nell’immediato secondo dopoguerra ha consentito a Bookchin di comprendere dinamiche collettive cruciali per ogni progettualità politica, dandogli rifugio dalle astrattezze concettuali e dalle inconcludenze tentennanti tipiche di ogni intellettuale che voglia restare «puro» rispetto alle contaminazioni della politica quotidiana. In essa, Bookchin ha saputo progressivamente distanziarsi dalla sua origine marxista e trockista per avvicinarsi sempre più alla visione libertaria e anarchica sia del rapporto con il mondo, sia delle forme organizzative con cui attivare processi di trasformazione sociale, ancor prima che politica.
In parallelo, la sua formazione da autodidatta gli ha permesso di costruirsi una solida cultura filosofica, politica, sociologica, storica, antropologica, al passo con il consolidato teorico della seconda metà del secolo scorso. Il suo ancoraggio nella cultura dialettica hegelo-marxiana lo ha avvicinato ai teorici di quella che fu denominata Scuola di Francoforte, ponendosi come uno dei suoi epigoni più interessanti quanto più eccentrica fu la sua collocazione tanto verso i Francofortesi, quanto verso il marxismo politico di matrice teorica.
I suoi lavori, ormai tradotti in tante lingue, spaziano dalla ricerca storica a quella antropologica, dalla ricostruzione delle forme sociali di urbanizzazione (dalla polis alla metropoli passando per i comuni medievali) ai temi più prettamente politici di segno anarchico, sino alla recente raccolta di alcuni suoi testi dall’emblematico titolo The Next Revolution, curata dalla figlia Debbie insieme a Blair Taylor. L’opera sua più celebre è The Ecology of Freedom, in cui mette a frutto la sua intensa partecipazione ai movimenti ambientali, inaugurando tuttavia una torsione teorico-politica non indifferente, poiché Bookchin disloca il nesso tra uomo e natura, che rappresenta il focus di ogni critica ecologica al manifesto moderno stilato da Bacone, alla radice del rapporto di dominio che pervade il rapporto dell’uomo con l’altro uomo, con decenni di anticipo rispetto alle visioni divulgative di Vandana Shiva o di Naomi Klein. La disponibilità, assoluta o conflittuale, con cui l’umanità tratta la natura si iscrive all’interno di una cornice più ampia in cui l’umano dispone dell’altro umano in senso prettamente politico, dando luogo a una specifica forma di vita che noi definiamo società. Ecco perché, secondo Bookchin, ogni tesi ecologista che reinterpreti e reinventi un rapporto tra uomo e natura, tanto nella concettualità quanto nella pratica, è profondamente sociale perché socialmente costruita. E tale costruzione sociale delinea il campo della politica non come arte del governare assegnata alle varie istituzioni che si sono succedute nel corso dei secoli, bensì come modalità di organizzazione sociale volontariamente progettata e costruita nel concorso conflittuale di soggetti consapevoli e rischiarati nel dialogo permanente di ragioni, argomentazioni e obiezioni critiche.
Il lavoro che viene qui riproposto – al di là di qualche sporadico passaggio logorato dall’usura del tempo in frenetica accelerazione nel corso dei recenti, ultimi anni (ma basta sostituire i Grünen tedeschi, antesignani di tutti i vani tentativi di creare un partito-non-partito, con i greci di Syriza o con gli spagnoli di Podemos e la critica non muta di segno né fallisce il bersaglio, in relazione alla potenza corruttiva e vendicativa del potere politico una volta integrati nel sistema istituzionale, come peraltro ebbe ad affermare Bookchin nei suoi testi più tardi)1 – si concentra su una teoria politica dai forti risvolti pratici che segnano il lascito politico di Murray Bookchin. Sotto il titolo di Democrazia diretta, leggiamo alcuni dei testi centrali per focalizzare tanto la sua filosofia politica del Communalism, quanto la sua pratica sperimentale del municipalismo libertario ovverossia del confederalismo libertario.
Con Communalism, Bookchin intende offrire una linea di fuga affermativa alle istanze rivoluzionarie e radicali che si agitavano lui vivente e si sono agitate dopo la sua scomparsa, praticando concretamente modalità di agire politico e sociale che Bookchin aveva sottolineato e anticipato nei suoi scritti, senza volerne fare un profeta suo malgrado. In effetti, pratiche adottate da movimenti quali Occupy Wall Street, gli Indignados, alcuni aspetti delle rivolte arabe, ecc. risentono pur senza citarle delle suggestioni offerte da Bookchin in una miriade di interventi e di articoli scritti per la stampa radicale, rivoluzionaria e anarchica nel corso della sua esistenza, tutti segnati da una mobilitazione dal basso verso l’alto, da una acquisizione di consapevolezza della propria forza (empowerment sociale e politico, non solo di gender), dal ridimensionamento pensato delle formazioni istituenti un corpo burocratico e leaderistico, dai processi decisionali partecipati, diretti (face-to-face) e orizzontali, dalla rotazione delle cariche rappresentative immediatamente controllabili e revocabili, dalla concatenazione di luoghi politici decentralizzati a sfere concentriche crescenti e interdipendenti che coprono territori più ampi e coinvolgono quantità di individui sempre più numerose (sebbene Bookchin, a differenza dell’anarchismo e delle pratiche dei movimenti recenti orientati ala condivisione per consenso, si pronunci a favore di un processo decisionale su base maggioritaria). Si tratta di ipotesi riscontrabili in ogni autore anarchico che si rispetti, talora adottate in tormentati frangenti storici (la Commune di Parigi), in momenti frammentari e a singhiozzo (la rivoluzione spagnola del 1936), che Bookchin sistematizza in una cornice generale che recepisce la dura lezione delle rivoluzioni statuali dell’era moderna, sia di quelle che hanno dato vita ai sistemi liberali rappresentativi, sia di quelle che hanno dato vita a sistemi totalitari quali il leninismo realizzato o il maoismo istituito.
Il Communalism, quindi, si propone come una teoria politica che raccoglie l’eredità della spinta collettiva di una politica rivoluzionaria, adottando pratiche libertarie che prevengano e neutralizzino le derive fisiologiche connesse alla chiusura statuale, elitaria (non importa se di classe, di partito o quant’altro), in ultima analisi gerarchica e autoritaria. «Il Communalism rappresenta una critica della società gerarchica e capitalista nel suo insieme»2. Di questa lunga e nobile tradizione, bacata sin dalla fonte come preconizzato dal dissidio Marx-Bakunin nella I Internazionale e come testimoniato dalle critiche anarchiche in tempo reale al sovietismo leninista della rivoluzione russa, a Bookchin interessa principalmente la dimensione collettiva della trasformazione sociale e politica, giacché non può esistere alcuna proposta politica che non sia collettiva nel suo respiro e nel suo protagonismo. E con ciò Bookchin ci invita a distinguere sempre e comunque una dimensione della politica potenzialmente estranea, differente e conflittuale con una dimensione statuale, sempre in agguato per catturarla e appiattirla su di essa3.
Oggi è tanto più importante sottolineare tale dimensione communalista, che racchiude in sé lo spirito del comune, dei beni comuni e del comunismo come filosofia di vita (e non come progetto politico reale), quanto più si va affermando – in inquietante parallelo con lo svuotamento della politica da parte di egemonie e poteri forti che hanno catturato la politica all’interno di logiche mercatiste declinate secondo l’attuale congiuntura di finanziarizzazione dell’economia politica dominante, quella capitalista – una ipotesi di fuoriuscita rivoluzionaria legata alla sommatoria caotica ma causale, organizzabile puntualmente ma informalmente, di prese di posizioni individuali, di moltitudini tanto più singolari quanto più invisibili dai circuiti di osservazione e controllo che si alimentano di reti mediatiche e digitali altrettanto invisibili e pervasive. Bookchin polemizza fortemente, magari eccessivamente, nel suo libro Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: An Unbridgeable Chasm del 1995, con un anarchismo ridotto, a suo avviso, a stile di vita, a forma impolitica sempre pronta ad attaccare frontalmente lo stato e le sue istituzioni ma solamente di tanto in tanto, disdegnando un lungo e paziente lavorio sul terreno per favorire, invece, soluzioni multi-individuali di fuga dal reale ormai inesorabilmente catturato e illiberabile. […]
Beninteso, quando il Communalism bookchiniano insiste sui processi storici di mutamento delle forme di vita associate offre idee per il presente e non mere ricostruzioni accademiche, invitando ognuno a decostruire immaginari sedimentati in pratiche ordinarie di esistenza avvilente per ricostruire immaginari inediti da colmare in pratiche alternative di vita, di produzione, di associazione, di consumo, di affettività, e via continuando. Ma con la consapevolezza che tale duplice fatica acquista senso se diviene comune, ossia condivisa, partecipata, collettiva. In altri termini, la diffusività di una trasformazione sociale dal basso che ripudia la via istituzionale, utile solo al ricambio delle élites dominanti, non significa un autocompiacimento di una micro-politica interstiziale e resistente, quanto la destituzione (di senso nell’immaginario simbolico quotidiano ma anche di presa efficace sulle esistenze) e la contestuale espansione di ambiti di empowerment a livello societario, incluso la gestione quanto più possibile autonoma di territori di vita in comune, beninteso in una conflittualità altrettanto diffusa socialmente, immune dalle seduzioni della politique politicienne.
Qui entra in gioco il côté sperimentale proposto da Bookchin con il municipalismo libertario, magari modellato sul modello americano e quindi un po’ distante dalle usuali morse statuali contro le quali concepire una partecipazione radicale sui territori che arrivi persino a gestire non tanto pezzi di governo degli enti locali, ma comunque erodere potere politico, strappare amministrazione di beni comuni (oltre il pubblico e il privato, sloganisticamente parlando), condizionare dal basso le politiche dei partiti ufficiali, affiancare le istituzioni ufficiali con luoghi politici condivisi e partecipati che elaborano politica orizzontalmente e dal basso. «Immaginava che questo autogoverno diventasse sempre più forte mentre si solidificava in un «potere duale», che avrebbe sfidato e alla fine smantellato il potere dello Stato-nazione»4. Una progettualità politica a servizio di un immaginario sociale forgiato da una cittadinanza attiva che non coincide minimamente con la cittadinanza recintata nei limiti del cerchio rappresentativo, anzi contro-effettuata in senso radicale e debordante limiti e recinti imposti.
Si tratta di una proposta che va oltre l’indubbio spirito di resistenza che alimenta oggigiorno la gran parte delle ipotesi politiche non-violente che cercano di coniugare politica e impegno civico, radicalità e singolarità esistenziale, poiché è ovvio che senza un profondo coinvolgimento interiore che modifica l’ethos di ciascuno non si va da nessuna parte, anzi generalmente si è trasportati in direzioni lontane dalla libertà e della liberazione. Ma di contro, senza una declinazione plurale di tale ethos singolare, resistere è meritorio ma insufficiente a trasformare la realtà in senso libertario, il che è concepibile solo in una dimensione collettiva gradualmente e faticosamente conseguibile, tenendo conto dei rapporti di forza e degli immaginari da scardinare e da rielaborare. Ovvio che la cornice entro cui inquadrare il communalism e la pratica sperimentale del municipalismo libertario o della democrazia radicale diretta o del confederalismo autogestionario o del potere politico parallelo (dual power)5 sia quella del conflitto con le gerarchie statuali da un lato, e dall’altro con il predominio delle norme capitaliste di mercato che sovradeterminano non solo le dinamiche economiche ma oggi, in piena era neoliberale, anche le pratiche di soggettivazione in campi esteriori all’economia di mercato.
Indubbiamente, le esperienze di autogoverno territoriale di segno politico sono diversificate nel panorama mondiale, si va dal contropotere assembleare rispetto alle amministrazioni locali alla conquista elettorale degli enti locali mantenendo un controllo di base sugli eletti, alla sottrazione di territori alla cattura statuale, secondo il modello zapatista. Bookchin concepisce il municipalismo libertario come un primo tassello di riaffermazione della politica sull’economico, sulla tecnica dei numeri aridi che imporrebbero soluzioni irriflesse e autoveridiche, senza dare adito a pubblico dibattito, cui affiancare una serie di altri pilastri di autogoverno territoriale sul piano delle autogestioni di attività produttive e di consumo, nonché di altre istituzioni quali la sanità e l’istruzione. Ne sono esempi le cliniche autogestite degli zapatisti in Chiapas, le pratiche rurali di autoproduzione e consumo sostenibile per quanto concerne il ciclo alimentare, le energie rinnovabili e non invasive o l’uso delle acque potabili, sino alle miriadi di scuole/non-scuole libere ed extraistituzionali che si muovono sul terreno non solo pedagogico seguendo variegate linee di pensiero. […]
Salvo Vaccaro
Note
- Murray Bookchin, The Next Revolution. Popular Assemblies and the Promise of Direct Democracy, a cura di Debbie Bookchin e Blair Taylor, Verso, London-New York, 2015, in particolare p. 38.
- Ibidem, p. 19.
- Ibidem, p. 47.
- Debbie Bookchin, Bookchin: l’eredità vivente di un rivoluzionario americano, intervista di Federico Venturini, 2 marzo 2015, http://zcomm.org/bookchin-living-legacy-of-an-american-revolutionary.
- Murray Bookchin, The Next Revolution, cit., pp. 78 ss.