Esperienze eco-solidali e monete altre

Esperienze eco-solidali e monete altre

18 Aprile 2020 h. 10:00 – 19 Aprile 2020 h. 18:00 

L’incontro si svolgerà quest’anno a Milano (dal 18 al 19 aprile 2020) ed è incentrato sul tema “Costruire comunità attraverso la cura dei beni comuni”.

Si vuole portare l’attenzione in particolare sul possibile impiego degli strumenti di scambio e credito mutuale, nelle pratiche eco – solidali e nei governi locali, al fine di affrontare meglio le attuali condizioni di crisi sistemica.
Da questo punto di vista l’incontro si presenta come una continuazione delle Scuole di Giovinazzo, specie quella del 2018, dedicata agli “Strumenti di scambio e credito mutuali per le economie solidali”.
Nel 2018 erano presenti a Giovinazzo le più significative reti di scambio e credito mutuale attive in Italia: dall’Associazione Nazionale delle Banche del Tempo all’Arcipelago Scec; dal Buono di Uscita Solidale (Bus, di Reggio Emilia) alle esperienze “D.E.S. Pan e Farine del Friul del Mieç” (SCA Località S. Marco, UD) e Mi fido di noi (DES Brianza); dalla Rete di Mutuo Credito (Emilia Romagna e Trentino) al Sardex.
Avevano partecipato inoltre alcuni progetti allora in gestazione, come i progetti Ficos (Filiera Corta Sostenibile/Siciliana) e Grano (sostenuto da Campi Aperti, Arvaia e altre realtà eco-solidali dell’area Bolognese).
Queste esperienze hanno condiviso in vario modo il progetto Laboratorio Monete, momento di incontro tra ricercatori, esperti nei vari ambiti economici e sociali, ed attivisti di associazioni eco-solidali operanti in tutto il territorio nazionale [come la Rete Italiana di Economia Solidale; l’associazione Solidarius Italia; le associazioni Decrescita e Decrescita Felice; Bilanci di Giustizia; numerosi Gas e DES, come il Gas Nomade di Milano, il DES Altro Tirreno e il DES Oltre Confin; il Forum dell’Economia solidale e dei Beni Comuni del FVG; il CRESER (Coordinamento regionale delle economie solidali dell’Emilia Romagna); Banca etica di Bari/Fondazione finanza etica; il gruppo ricerca Retics (Reti Comunitarie di Scambio), promotore principale degli incontri precedenti].
In larga parte le esperienze di scambio e credito mutuale presenti a Giovinazzo parteciperanno anche all’incontro di Milano, dove saranno presenti anche nuovi progetti ed esperienze di “Monete altre”.
Gli obiettivi perseguiti sono molteplici:
– far conoscere, al livello nazionale e al più ampio numero di persone, le potenzialità degli strumenti di scambio e credito mutuali (utilizzeremo per questo, più che nelle occasioni precedenti, la comunicazione nei media e nei siti delle associazioni eco solidali);
– individuare e analizzare i principali problemi incontrati dalle esperienze di scambio e credito mutuale, così come dai diversi progetti di “monete altre” (a partire dal confronto tra le diverse realtà e gli attivisti ed esperti presenti, reso possibile dagli ampi spazi riservati agli approfondimenti condivisi);
– soffermare l’attenzione sulle forme di collaborazione che si possono stabilire tra reti di scambio e credito mutuale, le amministrazioni e i governi locali (data l’utilità reciproca di questa collaborazione e la sua urgenza per affrontare le attuali condizioni di crisi economica, ambientale e socio-politica);
– infine l’incontro dovrebbe aiutare ad approfondire le conoscenze comuni su temi abbastanza complessi e difficili, come le tecnologie block-chain e le cripto-monete (che stanno riscuotendo un interesse crescente, specie tra i giovani, ma presentano notevoli aspetti discutibili da rilevare puntualmente).
Si prevedono due tipi di partecipazione: per chi sarà presente a Milano, e per chi non potrà esserci fisicamente ma ritiene comunque utile il progetto Laboratorio Monete, desiderando accedere ai materiali condivisi (come le schede informative sulle diverse esperienze, articoli vari e link ai siti dei soggetti presenti).
Tutti gli iscritti avranno comunque accesso ai materiali raccolti negli spazi del Laboratorio Monete.

da: https://comune-info.net/appuntamento/esperienze-eco-solidali-e-monete-altre/

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È IL CAPITALISMO CHE STA UCCIDENDO LA NATURA, NON L’UMANITÀ

DI ANNA PIGOTT

L’ultimo rapporto Living planet del WWF è una lettura piuttosto dura: la fauna selvatica è diminuita del 60% dal 1970, alcuni ecosistemi stanno collassando e c’è una buona possibilità che la specie umana non abbia vita lunga. La relazione sottolinea continuamente come la colpa di questa estinzione di massa sia da attribuire all’uomo e a ciò che consuma, e i giornalisti si sono precipitati a diffondere questo messaggio. Il Guardian ha titolato: “L’umanità ha distrutto il 60% delle specie animali”, mentre la Bbc ha scelto: “Il consumismo ha causato una grossa perdita di fauna selvatica”. Non c’è di che stupirsi: nelle 148 pagine del rapporto la parola “umanità” appare 14 volte, e “consumismo” 54 volte.

C’è un termine, però, che non compare nemmeno una volta: capitalismo. Si potrebbe dire che, ora che l’83% degli ecosistemi di acqua dolce stanno collassando (un’altra delle statistiche inquietanti del rapporto), non abbiamo tempo di disquisire di semantica. Eppure, come ha scritto l’ecologista Robin Wall Kimmerer, “trovare le parole giuste è il primo passo per iniziare a capire.”

Nonostante il rapporto del WWF si avvicini al concetto, parlando del problema come di una questione culturale, economica e di modello produttivo insostenibile, non riesce a identificare il capitalismo come ciò che lega in maniera cruciale (e a volte casuale) tutte queste cose. In questo modo ci impedisce di vedere la reale natura del problema e, se non lo nominiamo, non possiamo affrontarlo perché è come puntare verso un obiettivo invisibile.

Il rapporto del WWF fa bene a evidenziare “il crescente consumo da parte dell’uomo”, e non la crescita della popolazione, come la causa primaria dell’estinzione di massa, e si sforza in maniera particolare di illustrare il legame tra la perdita di biodiversità e il consumismo. Però si ferma lì, non dice che è il capitalismo a imporre questo modello sconsiderato di consumo. Questo –  in particolar modo nella sua forma neoliberista – è un’ideologia fondata sull’idea di una costante e perenne crescita economica, spinta proprio dai consumi: un assunto semplicemente fallace.

L’agricoltura industriale, il settore che il rapporto identifica come il responsabile primario della perdita di specie animali, è stata marcatamente costruita su principi capitalisti. Prima di tutto perché impone che abbiano valore solo quelle specie “mercificabili”, e secondo perché, nel cercare solo il profitto e la crescita, ignora tutte le conseguenze – come l’inquinamento o la perdita di biodiversità. Il rapporto, invece di richiamare l’attenzione sull’irrazionalità del capitalismo, che considera priva di valore la maggior parte della vita su questo pianeta, non fa altro che supportare la logica capitalista usando termini come “beni naturali” e “servizi dell’ecosistema” per riferirsi al pianeta vivente.

Il rapporto del WWF sceglie l’umanità come unità di analisi e questo monopolizza il linguaggio della stampa. Il Guardian, per esempio, riporta che “la popolazione globale sta distruggendo la rete della vita.” Questa frase è totalmente fuorviante: il rapporto del WWF riporta effettivamente che non è tutta l’umanità ad essere consumista, ma non sottolinea abbastanza che è solo una piccola minoranza della popolazione mondiale a causare la maggior parte dei danni.

Dalle emissioni di anidride carbonica all’impronta ambientale, è il 10% più ricco della popolazione ad avere l’impatto maggiore. Inoltre, non si dice che gli effetti del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità abbiano maggiore impatto sulle persone più povere – le persone che contribuiscono al problema in maniera minore. Sottolineare queste differenze è importante perché sono queste il problema, e non l’umanità per sé, e perché le disuguaglianze sono endemiche nei sistemi capitalisti, specialmente per via della sua eredità razzista e colonialista.

“Umanità” è una parola ombrello che tende a coprire tutte queste crepe, impedendoci di vedere la situazione per come è. Inoltre, diffonde l’idea che gli esseri umani siano intrinsecamente “cattivi”, e che sia in qualche modo parte della nostra natura consumare fin quando non è rimasto niente. Un tweet postato in risposta alla pubblicazione della relazione del WWF suggeriva che fossimo “dei virus con le scarpe”: un atteggiamento che spinge solo verso una crescente apatia. 

Ma cosa succederebbe se questa sorta di auto-critica la rigirassimo verso il capitalismo? Non solo sarebbe un target più corretto, ma potrebbe anche darci la forza di vedere l’umanità come una forza benevola.

Le parole fanno ben altro rispetto ad assegnare responsabilità diverse a diverse cause. Le parole possono costruire o distruggere le narrazioni che abbiamo diffuso sul mondo, e queste narrazioni sono importanti perché ci aiutano a gestire la crisi ambientale. Usare riferimenti generalizzati all’umanità o al consumismo per parlare dei fattori preponderanti nella perdita di biodiversità non è solo sbagliato, ma contribuisce a diffondere una visione distorta su chi siamo e chi siamo in grado di diventare.

Parlare del capitalismo come di una causa fondamentale del cambiamento climatico, al contrario, ci aiuta a identificare tutta una serie di idee e abitudini che non sono né permanenti né fanno parte del nostro essere umani. Così facendo possiamo imparare che le cose non devono andare necessariamente così. Abbiamo il potere di indicare un colpevole ed esporlo. Come ha detto la scrittrice e ambientalista Rebecca Solnit, “Chiamare le cose con il loro nome distrugge le bugie che scusano, tamponano, smorzano, camuffano, eludono e incoraggiano all’inazione, all’indifferenza, alla noncuranza. Non basterà per cambiare il mondo, ma è un inizio.”

Il rapporto del WWF lancia un appello a trovare una “voce collettiva, cruciale se vogliamo invertire il trend della perdita di biodiversità”. Ma una voce collettiva è inutile se non usa le parole giuste. Fin quando noi, e organizzazioni come il WWF, non riusciremo a nominare il capitalismo come la causa principale dell’estinzione di massa, saremo incapaci di contrastare questa tragedia.

Questo articolo è stato tradotto da The Conversation.

da: thevision.com

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Paradosso: il neoliberismo è la rivoluzione della sinistra.

Era il 2 giugno del 1992, proprio il giorno in cui in Italia si festeggia la Repubblica, quando a bordo del panfilo di sua maestà la regina HMY BRITANNIA, una serie di manager ed economisti discussero del problema delle privatizzazioni nel nostro paese. In quell’occasione passò a salutare anche l’allora Direttore Generale del Ministero del Tesoro Mario Draghi.

Da lì a poco, esattamente il 28 giugno del 1992, prese il via il primo governo Amato ed il 10 luglio con il decreto n.333 furono trasformate in S.P.A. IRI, ENEL, ENI, INA e successivamente le Ferrovie dello Stato. 

Si comincia intanto, anche ad attaccare il lavoro con il decreto legge n.20 del febbraio del 1993, tramite il quale si avvia la privatizzazione dei rapporti di lavoro all’interno delle pubbliche amministrazioni

Poi, a luglio del 1993, con Ciampi al governo ed in maggioranza, tra gli altri, la Democrazia Cristiana, il Partito Democratico della Sinistra, i Socialisti e i Verdi e all’opposizione, Partito della Rifondazione Comunista, Movimento Sociale e Lega Nord, si comincia a smontare il gruppo SME (azienda pubblica controllata dall’IRI) , di cui laNestlé acquisiscei marchi Motta,Alemagna, La Cremeria, Antica Gelateria del Corso, Maxicono, SurgelaMarefresco, La Valle degli Orti, Voglia di pizza, Oggi in Tavola. 

Adicembre si avvia la dismissione totale della quota detenuta dell’Iri nel Credito Italiano, di quella detenuta dall’Eni nel Nuovo Pignone e la dismissione da parte dell’Eni delle società controllate AGIP e SNAM, previa quotazione in borsa delle stesse. Quindi, a seguire, la dismissione delle partecipazioni detenute dal tesoro in Banca Commerciale Italiana, Credito italiano, ENEL IMI, STET, AGIP ed INA.

Dopo aver ubbidito agli imperativi neoliberisti sul piano strettamente economico, per rafforzare l’ideologia e renderla agli occhi dei cittadini una unica ed intoccabile verità, è ovviamente necessario procedere in campo culturale, nonché completare l’opera in tema di politiche del lavoro.

Si inizia con il primo governo Prodi e l’introduzione della liberalizzazione del mercato del lavoro e l’introduzione del lavoro interinale (Treu e Bassanini), fino all’inizio della dismissione dell’intero patrimonio culturale.

In cima alla lista c’è la trasformazione del Centro Sperimentale di Cinematografia, un ente pubblico, in fondazione (Scuola nazionale di cinema) e della Biennale di Venezia, anche questo un ente pubblico, in una persona giuridica privata (Società di cultura La Biennale di Venezia).

Con il governo D’Alema (partecipanti a vario titolo: Mattarella, Berlinguer, Minniti, Letta, Amato, Dini, Ciampi, Diliberto, Bersani, Fassino, Bindi…), si completa il lavoro iniziato autorizzando la privatizzazione della Giunta centrale per gli studi storici, dell’Istituto italiano di numismatica, dell’IstitutoStorico Italiano per il Medio Evo, dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, dell’Istituto italiano per la storia antica, dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, dell’Ente per le ville vesuviane, della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, dell’Ente “Casa di Oriani”, del Centro nazionale di studi leopardiani, dell’Istituto di studi filosofici “Enrico Castelli”, dell’Istituto italiano per la storia della musica, dell’Istituto italiano di studigermanici (Roma), dell’Istituto nazionale di studi verdiani (Parma), del Centro nazionale distudi manzoniani (Milano), dell’Ente “Casa Buonarroti” (Firenze), dell’Ente “Domus Galileana” (Pisa), dell’Istituto “Domus mazziniana” (Pisa), del Centro nazionale di studi alfieriani (Asti), dell’Istituto nazionale di studi sul rinascimento (Firenze), dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia(Milano), dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte (Roma), del Centro internazionale di studi di architettura “Andrea Palladio”(Vicenza), dell’Istituto internazionale di studi giuridici (Roma), del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto), dell’Erbario tropicale di Firenze, dell’Ente nazionale della cinofilia italiana.

Infine, nel febbraio 2010 la Corte dei Conti, a processo ormai concluso, in un suo documento spiega che l’aumento di redditività delle aziende privatizzate, non fu dovuto ad una maggiore efficienza, ma semplicemente agli aumenti delle tariffe, senza peraltro investimenti consistenti volti a migliorare i servizi.

All’alba della caduta del Muro di Berlino, c’era evidentemente la possibilità di ridefinire e studiare un modello alternativo di società. Ma allora ciò non interessò e con il passare del tempo, molti dei personaggi di questa breve articolo, hanno rappresentato e portato avanti nella rappresentazione sociale, ideali di sinistra, creando proprio ciò che andava creato: una rivoluzione, ma di stampo neoliberista.

La sinistra che si fa promotrice della realizzazione dell’ideologia neoliberista: è questa la vera rivoluzione del XX secolo, purtroppo dal lato sbagliato della storia.

Oggi è però necessario svelare, comprendere e non dimenticare queste responsabilità politiche, altrimenti non saremo mai in grado di cambiare rotta.

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DELLA NECESSITA’ DI UNA COMUNITA’

La relazione che vale è quella ‘calda’, quella cioè che ci impegna con tutti i sensi, quella che ci permette di essere completamente, quella che non può sopportare distanze troppo lunghe, che rischierebbero di indebolirne l’autenticità.

Eppure oggi sembra che l’unica ragione di una relazione sia la sua ineffabilità, il suo essere una virtuale espressione su di un anonimo schermo.

Abbiamo appaltato la nostra umanità ad un ente privato, che così ci permette di essere. Mai nella storia è successo questo, mai nella storia si è arrivati alla cessione di una parte di sé ad un soggetto privato il quale potrebbe, in ogni momento, disporne a piacimento.

La ‘privatizzazione dell’essere’ sembra l’ultimo traguardo dell’ideologia neoliberista, l’apoteosi finale, l’ultimo segno della sua potenza distruttrice.

La ‘liquidità’ della condizione odierna, lascia che le relazioni galleggino come bottiglie vuote, innocue e solitarie, spinte da flussi prodotti dagli stessi manovratori della piscina.

L’unica possibilità è davvero ridefinire una solidità relazionale, che possa fare da attrattore per le emozioni, i pensieri, le speranze.

Ricostruire comunità, come isole nella corrente.

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Municipalismo e Democrazia Diretta

Pubblichiamo stralci della prefazione di Salvo Vaccaro al libro di Murray Bookchin Democrazia diretta (Elèuthera, 2015, pp. 104,  12,00).

Murray Bookchin (1921-2006) è stato uno dei pensatori radicali più influenti del XX secolo. Le sue idee, maturate nel corso di decenni in cui ha saputo intrecciare in maniera feconda attività politica militante e riflessione teorica, sono oggi diventate pratiche quotidiane diffuse in vari ambienti del pianeta, anche laddove nessuno ha mai letto un rigo dei suoi libri.
La sua attività politica e sindacale nell’immediato secondo dopoguerra ha consentito a Bookchin di comprendere dinamiche collettive cruciali per ogni progettualità politica, dandogli rifugio dalle astrattezze concettuali e dalle inconcludenze tentennanti tipiche di ogni intellettuale che voglia restare «puro» rispetto alle contaminazioni della politica quotidiana. In essa, Bookchin ha saputo progressivamente distanziarsi dalla sua origine marxista e trockista per avvicinarsi sempre più alla visione libertaria e anarchica sia del rapporto con il mondo, sia delle forme organizzative con cui attivare processi di trasformazione sociale, ancor prima che politica.
In parallelo, la sua formazione da autodidatta gli ha permesso di costruirsi una solida cultura filosofica, politica, sociologica, storica, antropologica, al passo con il consolidato teorico della seconda metà del secolo scorso. Il suo ancoraggio nella cultura dialettica hegelo-marxiana lo ha avvicinato ai teorici di quella che fu denominata Scuola di Francoforte, ponendosi come uno dei suoi epigoni più interessanti quanto più eccentrica fu la sua collocazione tanto verso i Francofortesi, quanto verso il marxismo politico di matrice teorica.
I suoi lavori, ormai tradotti in tante lingue, spaziano dalla ricerca storica a quella antropologica, dalla ricostruzione delle forme sociali di urbanizzazione (dalla polis alla metropoli passando per i comuni medievali) ai temi più prettamente politici di segno anarchico, sino alla recente raccolta di alcuni suoi testi dall’emblematico titolo The Next Revolution, curata dalla figlia Debbie insieme a Blair Taylor. L’opera sua più celebre è The Ecology of Freedom, in cui mette a frutto la sua intensa partecipazione ai movimenti ambientali, inaugurando tuttavia una torsione teorico-politica non indifferente, poiché Bookchin disloca il nesso tra uomo e natura, che rappresenta il focus di ogni critica ecologica al manifesto moderno stilato da Bacone, alla radice del rapporto di dominio che pervade il rapporto dell’uomo con l’altro uomo, con decenni di anticipo rispetto alle visioni divulgative di Vandana Shiva o di Naomi Klein. La disponibilità, assoluta o conflittuale, con cui l’umanità tratta la natura si iscrive all’interno di una cornice più ampia in cui l’umano dispone dell’altro umano in senso prettamente politico, dando luogo a una specifica forma di vita che noi definiamo società. Ecco perché, secondo Bookchin, ogni tesi ecologista che reinterpreti e reinventi un rapporto tra uomo e natura, tanto nella concettualità quanto nella pratica, è profondamente sociale perché socialmente costruita. E tale costruzione sociale delinea il campo della politica non come arte del governare assegnata alle varie istituzioni che si sono succedute nel corso dei secoli, bensì come modalità di organizzazione sociale volontariamente progettata e costruita nel concorso conflittuale di soggetti consapevoli e rischiarati nel dialogo permanente di ragioni, argomentazioni e obiezioni critiche.
Il lavoro che viene qui riproposto – al di là di qualche sporadico passaggio logorato dall’usura del tempo in frenetica accelerazione nel corso dei recenti, ultimi anni (ma basta sostituire i Grünen tedeschi, antesignani di tutti i vani tentativi di creare un partito-non-partito, con i greci di Syriza o con gli spagnoli di Podemos e la critica non muta di segno né fallisce il bersaglio, in relazione alla potenza corruttiva e vendicativa del potere politico una volta integrati nel sistema istituzionale, come peraltro ebbe ad affermare Bookchin nei suoi testi più tardi)1 – si concentra su una teoria politica dai forti risvolti pratici che segnano il lascito politico di Murray Bookchin. Sotto il titolo di Democrazia diretta, leggiamo alcuni dei testi centrali per focalizzare tanto la sua filosofia politica del Communalism, quanto la sua pratica sperimentale del municipalismo libertario ovverossia del confederalismo libertario.
Con Communalism, Bookchin intende offrire una linea di fuga affermativa alle istanze rivoluzionarie e radicali che si agitavano lui vivente e si sono agitate dopo la sua scomparsa, praticando concretamente modalità di agire politico e sociale che Bookchin aveva sottolineato e anticipato nei suoi scritti, senza volerne fare un profeta suo malgrado. In effetti, pratiche adottate da movimenti quali Occupy Wall Street, gli Indignados, alcuni aspetti delle rivolte arabe, ecc. risentono pur senza citarle delle suggestioni offerte da Bookchin in una miriade di interventi e di articoli scritti per la stampa radicale, rivoluzionaria e anarchica nel corso della sua esistenza, tutti segnati da una mobilitazione dal basso verso l’alto, da una acquisizione di consapevolezza della propria forza (empowerment sociale e politico, non solo di gender), dal ridimensionamento pensato delle formazioni istituenti un corpo burocratico e leaderistico, dai processi decisionali partecipati, diretti (face-to-face) e orizzontali, dalla rotazione delle cariche rappresentative immediatamente controllabili e revocabili, dalla concatenazione di luoghi politici decentralizzati a sfere concentriche crescenti e interdipendenti che coprono territori più ampi e coinvolgono quantità di individui sempre più numerose (sebbene Bookchin, a differenza dell’anarchismo e delle pratiche dei movimenti recenti orientati ala condivisione per consenso, si pronunci a favore di un processo decisionale su base maggioritaria). Si tratta di ipotesi riscontrabili in ogni autore anarchico che si rispetti, talora adottate in tormentati frangenti storici (la Commune di Parigi), in momenti frammentari e a singhiozzo (la rivoluzione spagnola del 1936), che Bookchin sistematizza in una cornice generale che recepisce la dura lezione delle rivoluzioni statuali dell’era moderna, sia di quelle che hanno dato vita ai sistemi liberali rappresentativi, sia di quelle che hanno dato vita a sistemi totalitari quali il leninismo realizzato o il maoismo istituito.
Il Communalism, quindi, si propone come una teoria politica che raccoglie l’eredità della spinta collettiva di una politica rivoluzionaria, adottando pratiche libertarie che prevengano e neutralizzino le derive fisiologiche connesse alla chiusura statuale, elitaria (non importa se di classe, di partito o quant’altro), in ultima analisi gerarchica e autoritaria. «Il Communalism rappresenta una critica della società gerarchica e capitalista nel suo insieme»2. Di questa lunga e nobile tradizione, bacata sin dalla fonte come preconizzato dal dissidio Marx-Bakunin nella I Internazionale e come testimoniato dalle critiche anarchiche in tempo reale al sovietismo leninista della rivoluzione russa, a Bookchin interessa principalmente la dimensione collettiva della trasformazione sociale e politica, giacché non può esistere alcuna proposta politica che non sia collettiva nel suo respiro e nel suo protagonismo. E con ciò Bookchin ci invita a distinguere sempre e comunque una dimensione della politica potenzialmente estranea, differente e conflittuale con una dimensione statuale, sempre in agguato per catturarla e appiattirla su di essa3.
Oggi è tanto più importante sottolineare tale dimensione communalista, che racchiude in sé lo spirito del comune, dei beni comuni e del comunismo come filosofia di vita (e non come progetto politico reale), quanto più si va affermando – in inquietante parallelo con lo svuotamento della politica da parte di egemonie e poteri forti che hanno catturato la politica all’interno di logiche mercatiste declinate secondo l’attuale congiuntura di finanziarizzazione dell’economia politica dominante, quella capitalista – una ipotesi di fuoriuscita rivoluzionaria legata alla sommatoria caotica ma causale, organizzabile puntualmente ma informalmente, di prese di posizioni individuali, di moltitudini tanto più singolari quanto più invisibili dai circuiti di osservazione e controllo che si alimentano di reti mediatiche e digitali altrettanto invisibili e pervasive. Bookchin polemizza fortemente, magari eccessivamente, nel suo libro Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: An Unbridgeable Chasm del 1995, con un anarchismo ridotto, a suo avviso, a stile di vita, a forma impolitica sempre pronta ad attaccare frontalmente lo stato e le sue istituzioni ma solamente di tanto in tanto, disdegnando un lungo e paziente lavorio sul terreno per favorire, invece, soluzioni multi-individuali di fuga dal reale ormai inesorabilmente catturato e illiberabile. […]
Beninteso, quando il Communalism bookchiniano insiste sui processi storici di mutamento delle forme di vita associate offre idee per il presente e non mere ricostruzioni accademiche, invitando ognuno a decostruire immaginari sedimentati in pratiche ordinarie di esistenza avvilente per ricostruire immaginari inediti da colmare in pratiche alternative di vita, di produzione, di associazione, di consumo, di affettività, e via continuando. Ma con la consapevolezza che tale duplice fatica acquista senso se diviene comune, ossia condivisa, partecipata, collettiva. In altri termini, la diffusività di una trasformazione sociale dal basso che ripudia la via istituzionale, utile solo al ricambio delle élites dominanti, non significa un autocompiacimento di una micro-politica interstiziale e resistente, quanto la destituzione (di senso nell’immaginario simbolico quotidiano ma anche di presa efficace sulle esistenze) e la contestuale espansione di ambiti di empowerment a livello societario, incluso la gestione quanto più possibile autonoma di territori di vita in comune, beninteso in una conflittualità altrettanto diffusa socialmente, immune dalle seduzioni della politique politicienne.
Qui entra in gioco il côté sperimentale proposto da Bookchin con il municipalismo libertario, magari modellato sul modello americano e quindi un po’ distante dalle usuali morse statuali contro le quali concepire una partecipazione radicale sui territori che arrivi persino a gestire non tanto pezzi di governo degli enti locali, ma comunque erodere potere politico, strappare amministrazione di beni comuni (oltre il pubblico e il privato, sloganisticamente parlando), condizionare dal basso le politiche dei partiti ufficiali, affiancare le istituzioni ufficiali con luoghi politici condivisi e partecipati che elaborano politica orizzontalmente e dal basso. «Immaginava che questo autogoverno diventasse sempre più forte mentre si solidificava in un «potere duale», che avrebbe sfidato e alla fine smantellato il potere dello Stato-nazione»4. Una progettualità politica a servizio di un immaginario sociale forgiato da una cittadinanza attiva che non coincide minimamente con la cittadinanza recintata nei limiti del cerchio rappresentativo, anzi contro-effettuata in senso radicale e debordante limiti e recinti imposti.
Si tratta di una proposta che va oltre l’indubbio spirito di resistenza che alimenta oggigiorno la gran parte delle ipotesi politiche non-violente che cercano di coniugare politica e impegno civico, radicalità e singolarità esistenziale, poiché è ovvio che senza un profondo coinvolgimento interiore che modifica l’ethos di ciascuno non si va da nessuna parte, anzi generalmente si è trasportati in direzioni lontane dalla libertà e della liberazione. Ma di contro, senza una declinazione plurale di tale ethos singolare, resistere è meritorio ma insufficiente a trasformare la realtà in senso libertario, il che è concepibile solo in una dimensione collettiva gradualmente e faticosamente conseguibile, tenendo conto dei rapporti di forza e degli immaginari da scardinare e da rielaborare. Ovvio che la cornice entro cui inquadrare il communalism e la pratica sperimentale del municipalismo libertario o della democrazia radicale diretta o del confederalismo autogestionario o del potere politico parallelo (dual power)5 sia quella del conflitto con le gerarchie statuali da un lato, e dall’altro con il predominio delle norme capitaliste di mercato che sovradeterminano non solo le dinamiche economiche ma oggi, in piena era neoliberale, anche le pratiche di soggettivazione in campi esteriori all’economia di mercato.
Indubbiamente, le esperienze di autogoverno territoriale di segno politico sono diversificate nel panorama mondiale, si va dal contropotere assembleare rispetto alle amministrazioni locali alla conquista elettorale degli enti locali mantenendo un controllo di base sugli eletti, alla sottrazione di territori alla cattura statuale, secondo il modello zapatista. Bookchin concepisce il municipalismo libertario come un primo tassello di riaffermazione della politica sull’economico, sulla tecnica dei numeri aridi che imporrebbero soluzioni irriflesse e autoveridiche, senza dare adito a pubblico dibattito, cui affiancare una serie di altri pilastri di autogoverno territoriale sul piano delle autogestioni di attività produttive e di consumo, nonché di altre istituzioni quali la sanità e l’istruzione. Ne sono esempi le cliniche autogestite degli zapatisti in Chiapas, le pratiche rurali di autoproduzione e consumo sostenibile per quanto concerne il ciclo alimentare, le energie rinnovabili e non invasive o l’uso delle acque potabili, sino alle miriadi di scuole/non-scuole libere ed extraistituzionali che si muovono sul terreno non solo pedagogico seguendo variegate linee di pensiero. […] 

Salvo Vaccaro

Note 

  1. Murray Bookchin, The Next Revolution. Popular Assemblies and the Promise of Direct Democracy, a cura di Debbie Bookchin e Blair Taylor, Verso, London-New York, 2015, in particolare p. 38.
  2. Ibidem, p. 19.
  3. Ibidem, p. 47.
  4. Debbie Bookchin, Bookchin: l’eredità vivente di un rivoluzionario americano, intervista di Federico Venturini, 2 marzo 2015, http://zcomm.org/bookchin-living-legacy-of-an-american-revolutionary
  5. Murray Bookchin, The Next Revolution, cit., pp. 78 ss.

FONTE: http://www.arivista.org/?nr=403&pag=53.htm#1

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Il neoliberismo quale ideologia fondamentalista

Privatizzare, polarizzare, concentrare a livello sociale; destrutturare, individualizzare, superficializzare, a livello individuale. Queste sono le caratteristiche del terzo regime totalitario dell’epoca moderna: il Neoliberismo.

Il liberalismopromuove, sostiene MacIntyre (A. MacIntyre, After Virtue.), una visione del mondo sociale concepito come un’arena nella quale ciascun individuo che tenta di raggiungere quello che crede sia il proprio bene, ha bisogno di essere protetto da altri individui attraverso la garanzia del rispetto dei diritti individuali. L’argomentazione morale all’interno del liberalismo non può pertanto partire da qualche concezione di un autentico bene comune che sia qualcosa di più e di diverso dalla somma delle preferenze degli individui.

Il governo e la legge sono propagandati come neutrali tra concezioni rivali del bene, mentre in realtà tutto è funzionale a preservare l’ordine liberale. Il liberalismo è pertanto un’ideologia come le altre e, dal punto di vista pratico, è la politica di un gruppo di élite i cui membri, attraverso il controllo della macchina del partito e dei mezzi di comunicazione, predeterminano quasi interamente la gamma di scelte politiche aperte alla gran massa degli elettori comuni. A questi elettori, a parte il fare scelte elettorali, non si richiede altro che la passività. La politica e il suo ambiente culturale sono divenute aree professionali e, tra i professionisti più importanti, vi sono i manipolatori dell’opinione della massa. Occorre a ciò aggiungere che l’ingresso e il successo nelle arene della politica liberale richiedono sempre maggiori risorse finanziarie, che possono venire solo dal capitalismo delle multinazionali: in questo modo il liberalismo assicura l’esclusione della maggior parte delle persone dalla possibilità di partecipazione attiva e razionale alla determinazione della forma di comunità nella quale essi stessi vivono. Non è un caso l’accanimento che, per esempio in Italia, vi è stato contro il finanziamento pubblico ai partiti. Fallito il referendum del 2000 promosso dai Radicali, ci pensarono poi Monti e Letta, due estremisti del neoliberismo, ad abolirlo. 

Nella società moderna, non più ordinata verso il bene comune, i valori di mercato vengono eretti a valori centrali e l’accumulo diviene la forza trainante dell’intera struttura sociale (A. MacIntyre, Three Perspectives on Marxism: 1953, 1968, 1995, cit., p. 149.). Il successo nella vita diviene una questione di acquisizione di beni di consumo e non è certo una sorpresa che la cremastica o la pleonexia, l’impulso cioè ad avere sempre di più, venga considerata una delle virtù centrali della società liberale capitalistica, mentre era uno dei principali vizi per Platone e Aristotele (A. MacIntyre, The Privatization of Good, cit., pp. 353-4.49 A. MacIntyre, After Virtue, cit., p. 195. 50 A. MacIntyre, Three Perspectives on Marxism: 1953, 1968, 1995 in Ethics and Politics, cit., p. 154.).

Ciò a cui assistiamo nelle società liberali contemporanee è dunque un processo di «privatizzazione del bene», sostiene MacIntyre e nelle società liberali contemporanee non vi è nessuna concezione condivisa di che cosa sia il bene per l’uomo e questo comporta un’assenza di regole morali determinate e condivise, con la conseguenza che viene a mancare una sistematica discussione pubblica su questioni morali, che sarebbero fondamentali per una comunità.

Sostiene ancora MacIntyre: la cultura dominante della modernità post-illuministica manca di un qualunque accordo, per non parlare di un qualunque accordo razionalmente fondato o anche solo razionalmente discutibile, riguardo a che cosa renderebbe razionale per un individuo sacrificare la propria vita per un altro o per gli altri, o che cosa renderebbe razionale consentire che la vita di un individuo venga sacrificata per il bene di un altro individuo o di un gruppo o istituzione.

La conseguenza è che oggi, nella civiltà occidentale, ci troviamo privi di un telos, di una ragione da perseguire nelle nostre vite: viviamo in una condizione di perenne anomia, appoggiandoci sempre più spesso a pretesi ‘esperti’.

Ritornare ad Aristotele significa quindi ritrovare l’idea di un fine, di una causa verso cui tendere ed in base alla quale giudicare le azioni: sapere che gli uomini, in quanto esseri razionali, hanno un fine specifico, ci consentirebbe di valutare se le nostre azioni tendono a quel fine o se sono in disaccordo con esso. Proprio come Aristotele, MacIntyre ritiene che occorra partire dalla concezione della «vita buona per l’uomo», per potere valutare la qualità della società contemporanea, osservando se in essa l’essere umano può davvero sviluppare le proprie potenzialità più tipicamente umane, realizzando quell’eudaimonia così ben descritta da Aristotele. (vedi: Giovanni Giorgini, Università di Bologna, Studia Philologica Valentina ,Vol. 16, n.s. 13 (2014) 141-164 ).

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Franco CFA ed Euro, due strumenti utili al neoliberismo.

Le uniche due zone al mondo in cui degli stati nazionali non possiedono una sovranità monetaria, sono l’UE e gli stati del Franco CFA.

E’ importante, per questo, provare a capire come funziona il meccanismo del Franco CFA, perché esso è stato un buon modello quando si è trattato di costruire l’Euro ed i metodi con i quali la Francia ha ‘convinto’ gli stati africani a non abbandonare la zona a moneta unica, sono molto simili a quelli usati nella stessa UE.

Non avere un controllo sulla moneta, non permette politiche fiscali adeguate né, tantomeno, una autonoma interpretazione del mercato. Averne il controllo e tenerlo sempre più lontano dai cittadini di un territorio consente, al contrario, di imporre senza troppa difficoltà una ideologia che, nel nostro caso, si chiama neoliberismo.

Franco CFA: tutto quello che avreste sempre voluto sapere e non avete mai osato chiedere

di Thomas Fazi

Franco CFA. Fino a poco tempo fa queste due parole non avrebbero significato un granché per la maggior parte degli italiani. Oggi, invece, il termine è entrato nel dibattito pubblico anche da noi, grazie alle dichiarazioni di alcuni noti politici italiani, che hanno scatenato un’aspra crisi diplomatica tra Roma e Parigi. Dunque, chi segue la cronaca politica sa probabilmente che il franco CFA è una valuta utilizzata da una serie di paesi africani e soggetta alla tutela più o meno esplicita e più o meno disinteressata – a seconda dello schieramento del dibattito a cui si è scelto di credere – della Francia. Tuttavia per i più la questione rimane a dir poco fumosa. Vediamo dunque di fare chiarezza una volta per tutte.


Tanto per cominciare, quando parliamo di franco CFA, parliamo in realtà di due unioni monetarie: la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC), di cui fanno parte il Camerun, il Gabon, il Ciad, la Guinea Equatoriale, la Repubblica Centrafricana e la Repubblica del Congo; e l’Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), che comprende il Benin, il Burkina Faso, la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau, il Mali, il Niger, il Senegal e il Togo.

Queste due unioni monetarie usano due franchi CFA distinti, che però condividono lo stesso acronimo: per il franco della zona CEMAC, CFA sta per “Cooperazione finanziaria in Africa centrale”, mentre per il franco dell’EUMOA sta per “Comunità finanziaria africana”. Ad ogni modo, questi due franchi CFA funzionano esattamente alla stessa maniera e sono ancorati all’euro con la stessa parità di cambio. Insieme a un quindicesimo Stato – l’Unione delle Comore, che usa un franco distinto ma soggetto alle stesse regole – formano la cosiddetta “zona del franco”. Complessivamente, più di centosessantadue milioni di persone usano i due franchi CFA (più il franco delle Comore), secondo i dati ONU del 2015.

Occultato per lungo tempo dal dibattito pubblico – anche in Francia e persino nei paesi africani interessati – il franco CFA è da qualche tempo al centro di un dibattito sempre più vivace, anche grazie a libri come L’arma segreta della Francia in Africa. Una storia del franco CFA, della giornalista francese Fanny Pigeaud e dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla, pubblicato l’anno scorso in Francia e uscito da poco anche in Italia. Scrivono gli autori:


Per molto tempo, è stato fatto di tutto per mantenere il tema del franco CFA e le questioni che lo circondano lontano dal dibattito pubblico, in Francia come in Africa. Male o poco informati, i cittadini non avevano dunque gli strumenti per mettere in discussione il sistema. Tuttavia, da qualche anno a questa parte, il franco CFA ha smesso di essere una questione dibattuta unicamente dagli esperti: è uscito dai corridoi delle istituzioni finanziarie per affacciarsi sulle strade e sulle piazze. Oggi è oggetto di articoli, manifestazioni, spettacoli televisivi e conferenze nel continente africano e in Francia.

Secondo il governo francese, il franco CFA è un fattore di integrazione economica e di stabilità monetaria e finanziaria. Per contro, secondo gli oppositori della moneta – che include numerosissimi economisti e intellettuali africani (e non solo) – essa rappresenta a tutti gli effetti una forma di “schiavitù valutaria” che impedisce lo sviluppo delle economie africane e le tiene asservite agli interessi francesi. Come notano Pigeaud e Sylla, «negli ultimi anni si sono moltiplicate le voci – in strada, sui social network, nei circoli intellettuali o artistici – che chiedono la fine del franco CFA».

Una storia di repressione e violenza

Per districarsi in questo complesso dibattito – e prima di passare ad analizzare il funzionamento del sistema CFA – è necessario partire dalle origini. Il franco CFA – che originariamente significava “franco delle colonie francesi d’Africa” – nasce nel 1945, quando divenne la valuta ufficiale delle colonie francesi in Africa, che fino a quel momento avevano utilizzato il franco francese. In seguito alla guerra, infatti, Parigi fu costretta ad allentare la presa sulle sue colonie africane, che avevano giocato un ruolo decisivo nello sforzo bellico. Secondo le dichiarazioni degli ufficiali francesi, la fine dell’unicità monetaria tra la Francia e i suoi territori africani segnava la «fine del patto coloniale». In verità, scrivono Pigeaud e Sylla, «[l]ungi dal segnare la fine del “patto coloniale”, la nascita del franco CFA favorì il ripristino di relazioni commerciali molto vantaggiose per la Francia». Il franco CFA, infatti, era a tutti gli effetti una creatura francese, emessa e controllata dal ministero delle Finanze francese: la Francia poteva così decidere il valore esterno della valuta – la sua parità di cambio rispetto al franco francese – secondo i propri bisogni. E lo dimostrò fin da subito, imponendo alle colonie un tasso di cambio fortemente sopravvalutato. Il perché è ben spiegato dagli autori:


L’economia francese, fortemente indebolita dalla guerra, aveva bisogno di recuperare la sua quota di mercato e di assicurarsi nuovamente la fornitura di materie prime. In questo contesto, un franco CFA sopravvalutato era perfettamente funzionale agli interessi di Parigi. Il fatto che il suo valore fosse superiore a quello del franco metropolitano, infatti, rendeva i prodotti della metropoli più economici. Questo avrebbe dunque incoraggiato le colonie ad aumentare le loro importazioni dalla Francia continentale. Allo stesso tempo, un franco CFA forte avrebbe avuto l’effetto di aumentare i prezzi dei prodotti delle colonie destinati alle esportazioni e dunque di renderli più costosi rispetto a quelli dei loro concorrenti in Asia e in America Latina. Dunque, per sbarazzarsi della produzione in eccesso, le colonie avrebbero dovuto rivolgersi alla metropoli. I flussi commerciali delle colonie si sarebbero dunque riorientati a favore della metropoli, che ci avrebbe guadagnato sia in termini di esportazioni che di importazioni, senza dover toccare le proprie riserve valutarie.

Il vantaggio più evidente del franco CFA per la Francia, tuttavia, era un altro: poiché la valuta era emessa dalla Francia, quest’ultima godeva di un «privilegio esorbitante», secondo la famosa definizione usata nel 1964 da Valéry Giscard d’Estaing, l’allora ministro delle Finanze francese, per stigmatizzare l’egemonia del dollaro americano: la possibilità di continuare ad approvvigionarsi delle preziosissime risorse delle colonie a costo zero, di fatto, esattamente come faceva quando le colonie utilizzavano il franco francese. Le finalità del franco CFA, dunque, erano piuttosto diverse da quelle reclamizzate dalla propaganda coloniale francese, rilevano Pigeaud e Sylla, ossia «garantirsi attraverso di esso il controllo economico dei territori conquistati e facilitare il drenaggio delle loro ricchezze» verso la Francia.

Fin qui, comunque, nulla di particolarmente fuori dall’ordinario: al tempo era prassi comune per le potenze coloniali imporre alle proprie colonie forme più o meno esplicite di sudditanza monetaria. Il vero colpo da maestro la Francia lo realizzò a partire dalla fine degli anni Cinquanta, cioè da quando prese il via il processo di decolonizzazione del continente africano, che preannunciava la graduale disintegrazione degli imperi coloniali di Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Portogallo e Francia e delle loro rispettive aree valutarie. E infatti così fu per quasi tutti gli imperi in questione: man mano che le loro ex colonie divennero indipendenti, infatti, queste adottarono tutte delle valute nazionali.

L’unica eccezione alla regola fu l’impero coloniale francese: la Francia, infatti, è l’unica ex potenza coloniale ad essere riuscita a mantenere intatta la sua zona monetaria in Africa anche in seguito al processo di decolonizzazione, cioè alla conquista ufficiale da parte dei paesi africani della loro indipendenza formale (fatta eccezione per il Marocco, la Tunisia e l’Algeria, che si dotarono subito di una loro moneta nazionale). E lo ha fatto ricorrendo a tutti gli strumenti di pressione a sua disposizione: dalla diplomazia alla corruzione, dalla destabilizzazione economica alla violenza.

Il primo passo fu costringere i futuri Stati a firmare una lunga lista di cosiddetti “accordi di cooperazione” prima di concedere loro “l’indipendenza”. In base a questi accordi, i nuovi Stati furono obbligati ad affidare allo Stato francese la gestione di praticamente tutti i settori chiave dell’economia (e non solo): la politica estera, la difesa, il commercio e lo sfruttamento di materie prime e prodotti strategici, la valuta, la finanza, l’istruzione superiore, la marina mercantile, l’aviazione civile ecc. In questo modo, scrivono Pigeaud e Sylla, «la Francia si garantiva la perpetuazione del suo “diritto naturale” sulle ex colonie e sulle loro risorse». Pierre Villon, deputato comunista francese, notò come nel campo economico, monetario e finanziario gli accordi tendessero «a limitare nella pratica una sovranità riconosciuta dalla legge». Il cuore di questo dispositivo – fondato sul riconoscimento alle ex colonie di diritti formali di cui gli veniva impedito di godere nella pratica – era la moneta. Tutti gli accordi in questione, infatti, confermavano l’appartenenza dei nuovi Stati all’unione monetaria della zona del franco.

Per capire perché i neonati Stati africani accettarono delle limitazioni così pesanti alla sovranità appena conquistata, è necessario comprendere il rapporto di sudditanza – innanzitutto psicologica – nei confronti della Francia instauratosi nel corso di decenni di “tutela” coloniale e di gestione eterodiretta dei loro affari. È perfettamente comprensibile che uno Stato che emerga da una situazione di questo tipo ritenga di non essere in grado di gestire autonomamente i propri affari. Se oggi, dopo vent’anni di moneta unica, osserviamo una dinamica di questo tipo persino in un paese come l’Italia – una delle prime dieci economie al mondo –, figurarsi in degli Stati agricoli o comunque estremamente sottosviluppati quali erano le ex colonie in questione all’indomani dell’indipendenza.

Tuttavia, le ribellioni nei confronti del sistema CFA non si fecero attendere. E neanche le rappresaglie della Francia. Negli anni successivi all’indipendenza – soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta –, diversi paesi tentarono di abbandonare il sistema CFA, ma in pochi ce la fecero. Come scrivono Pigeaud e Sylla, la Francia «fece di tutto per scoraggiare quegli Stati che intendevano uscire dal CFA. Intimidazioni, operazioni di destabilizzazione e perfino assassinii e colpi di Stato contraddistinsero questo periodo, a testimonianza dei rapporti di forza permanenti e diseguali su cui si basavano – e si basano tutt’oggi – le relazioni tra la Francia e i suoi “partner” in Africa».

Il caso della Guinea è esemplare. L’1 marzo del 1960, di fronte all’indisponibilità di Parigi di allentare le regole del sistema CFA, la Guinea – che aveva preparato tutta l’operazione in segreto – lanciò una propria moneta nazionale, il franco guineano, e abbandonò la zona del franco. Poco tempo prima, Ahmed Sékou Touré, deputato dell’Assemblea nazionale francese e vicepresidente del Consiglio governativo della Guinea, si era espresso così di fronte a nientedimeno che il generale De Gaulle: «Noi non ci arrenderemo e non rinunceremo mai al nostro diritto legittimo e naturale all’indipendenza. Preferiamo essere poveri in libertà che ricchi nella schiavitù».

La reazione di Parigi alla fuoriuscita della Guinea dal sistema CFA ha dell’incredibile. Nei mesi successivi, la Francia fece di tutto per isolare e destabilizzare la Guinea e per rendere Sékou Touré «vulnerabile» e «impopolare». L’operazione fu orchestrata dal Servizio di documentazione estera e di controspionaggio (SDECE), con la complicità attiva dei presidenti del Senegal e della Costa d’Avorio, Léopold Sédar Senghor e Félix Houphouët-Boigny. Come avrebbe raccontato qualche decennio più tardi Maurice Robert, direttore della sezione africana dello SDECE, la Francia lanciò una serie di operazioni armate sfruttando mercenari locali, «con l’obiettivo di sviluppare un clima di insicurezza e, se possibile, rovesciare Sékou Touré».

Lo SDECE lanciò anche una serie di attacchi economici contro il paese. Uno di questi, che faceva parte di un’operazione di destabilizzazione nota come “Persil”, fu particolarmente perverso: esso consistette nella produzione, per mezzo delle tipografie dello SDECE, di banconote guineane false, che furono poi riversate in massa nel paese. Il risultato fu un drammatico aumento dell’inflazione e il crollo dell’economia guineana. Nonostante i vari tentativi di destabilizzazione da parte della Francia, però, la Guinea mantenne comunque la sua moneta e tutt’ora rimane al di fuori della zona del franco. La Francia riuscì comunque nel suo intento: trasformare la Guinea in uno “Stato fallito” che fungesse da spauracchio agli occhi degli altri paesi che avessero accarezzato l’idea di abbandonare il franco CFA.

Una sorte simile toccò al Mali. Anch’esso, dopo che le sue richieste di riforma del sistema CFA rimasero inascoltate, abbandonò la zona del franco nel 1962. Successivamente al lancio del franco maliano, la Francia fece pressione sugli altri Stati membri dell’UMOA – l’unione monetaria di cui faceva parte il Mali – perché adottassero subito una serie di misure per limitare il commercio con il Mali, un paese senza sbocchi sul mare, il che contribuì a deprezzarne fortemente la moneta. Il paese si trovò rapidamente in difficoltà. Nel 1967, il Mali si vide costretto a rientrare nella zona del franco. L’anno successivo, un colpo di Stato militare guidato da un ex legionario francese rovesciò il governo in carica. Fine della storia.

Come detto, la Francia non si limitò a ricorrere a forme di pressione economica e diplomatica. Il 12 dicembre del 1962, il neoeletto presidente del Togo, Sylvanus Olympio, promulgò una legge che annunciava l’imminente lancio di una moneta nazionale, il franco togolese. Ma questo non avrebbe mai visto la luce: il 13 gennaio del 1963, Sylvanus Olympio venne ucciso a colpi di arma da fuoco, in circostanze mai chiarite. Pochi giorni dopo, il suo posto fu preso da un fedele alleato della Francia, che in poco tempo firmò otto “accordi di cooperazione” con la Francia, incluso un “accordo di cooperazione in materia economica, monetaria e finanziaria” che stabiliva che il Togo sarebbe rimasto nella zona del franco e avrebbe mantenuto il franco CFA. Fine della storia.

La stessa sorte toccò negli anni Ottana al famoso rivoluzionario burkinabé Thomas Sankara, salito al potere nell’allora Alto Volta (ribattezzato Burkina Faso) nel 1983. Anche lui era determinato ad ottenere l’indipendenza monetaria per il suo paese. Nel 1985 dichiarò: «Possiamo affermare che il franco CFA, poiché è legato al sistema monetario francese, è un’arma per la dominazione degli africani. L’economia francese, e dunque la borghesia mercantile capitalista francese, ha costruito la sua fortuna sulle spalle dei nostri popoli attraverso questo legame, questo monopolio monetario. Questo è il motivo per cui il Burkina si sta battendo per porre fine a questa situazione attraverso la lotta del nostro popolo per costruire un’economia indipendente e autosufficiente». Come Sylvanus Olympio vent’anni prima, però, neanche Thomas Sankara fu in grado di completare il suo progetto: venne assassinato il 15 ottobre del 1987. Uno dei principali sospettati di questo omicidio – per il quale non si è mai svolto alcun processo – è il suo successore ed ex compagno d’armi Blaise Compaoré. Quest’ultimo, che sarebbe rimasto al potere fino al 2014, non ha mai contestato l’esistenza del franco CFA e ha mantenuto legami molto stretti con la Francia.

Questa lunga di scia di violenza e repressione ci aiuta a capire come la Francia sia «l’unico paese al mondo a essere riuscito nella straordinaria impresa di far circolare la sua moneta, e solo la sua moneta, in paesi politicamente liberi», come osservò l’economista camerunense Joseph Tchundjang Pouemi nel 1980. Fatta questa necessaria disamina storica – utile a comprendere come l’adesione “volontaria” degli Stati africani al sistema CFA poi così volontaria non sia – possiamo ora passare ad analizzare il “meccanismo diabolico” che sottende il franco CFA.

Il “meccanismo diabolico” del franco CFA

Oggi Parigi afferma che il franco CFA è diventato una “moneta africana” gestita dagli africani. Verso la fine degli anni Settanta, infatti, in un processo che assunse il nome di “africanizzazione” della zona del franco, i quartieri generali delle banche centrali delle due unioni monetarie – la BEAC (Banca degli Stati dell’Africa centrale), l’istituto di emissione dell’UEMOA, e la BCEAO (Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale), l’istituto di emissione della CEMAC – furono trasferiti nel continente africano. Inoltre, la rappresentanza francese nei consigli d’amministrazione delle banche centrali fu rivista al ribasso. Come notano Pigeaud e Sylla, però, a prescindere da questi cambiamenti di facciata, «[i]l sistema è cambiato così poco che all’“unicità monetaria” prevalente durante il periodo coloniale se ne è semplicemente sostituita un’altra»: i cosiddetti quattro princìpi fondamentali della zona del franco, che permettono ancora oggi alla Francia di esercitare un controllo pressoché assoluto sul sistema CFA, sebbene il paese non possieda più il franco francese da vent’anni: in occasione dell’adozione dell’euro, infatti, la Francia diede un’altra grande prova di abilità diplomatica, riuscendo a ottenere che la gestione del sistema CFA rimanesse di sua competenza esclusiva, senza che l’Unione europea e gli altri Stati membri potessero esercitare alcun diritto di controllo. Il risultato è che «[l]o spirito e la funzione del dispositivo su cui poggia questa creazione coloniale rimangono gli stessi di quando fu creato nel 1945».

I quattro princìpi in questione sono il cambio fisso (cioè l’ancoraggio dei franci CFA prima al franco francese e oggi all’euro); la libertà di movimento dei capitali, in particolare tra i paesi africani e la Francia; la convertibilità illimitata dei franchi CFA con l’euro ma non con le altre valute, per cui ogni pagamento estero effettuato in franchi CFA deve essere prima convertito in euro passando per Parigi; e, in ultimo, la centralizzazione delle riserve valutarie. I vantaggi che la Francia ricava dai quattro princìpi alla base del sistema CFA sono innumerevoli. «Più che una semplice moneta», scrivono gli autori, «il franco CFA consente alla Francia di gestire i suoi rapporti economici, monetari, finanziari e politici con alcune delle sue ex colonie secondo una logica funzionale ai suoi interessi». Nei fatti, per esempio, in virtù del suo ancoraggio nelle istituzioni della zona del franco, è Parigi a determinare il valore esterno dei franchi CFA, cioè il loro tasso di cambio, «spesso senza nemmeno informare preventivamente gli Stati interessati». Era il 1994 quando la Francia decise, contro la volontà degli Stati africani, di svalutare del 50 per cento i franchi CFA. Lo stesso accadde con la transizione dal franco francese all’euro, avvenuta l’1 gennaio del 1999. Inoltre, grazie al libero movimento dei capitali, le imprese francesi possono “privatizzare” i profitti realizzati in Africa rimpatriandoli in Francia piuttosto che investirli nello sviluppo locale.

Ma la vera chiave di volta del sistema CFA è rappresentata dalla centralizzazione delle riserve valutarie: le banche centrali della zona del franco – la BEAC e la BCEAO – devono depositare una parte delle loro riserve in valuta estera in Francia, in dei cosiddetti “conti operativi” che detengono presso il Tesoro francese. All’indomani dell’indipendenza, questo obbligo riguardava la quasi totalità delle loro riserve valutarie; oggi questa percentuale è stata ridotta al 50 per cento per la BEAC e al 65 per cento per la BCEAO. Questi conti operativi sono dei conti correnti denominati in euro. Sono regolarmente accreditati e addebitati in base ai flussi in entrata e in uscita dei paesi africani che appartengono alla zona del franco. Il meccanismo di fondo del sistema è relativamente semplice: se l’economia ivoriana esporta in Francia cacao per un valore di 400 milioni di euro, questa somma viene accreditata sul conto operativo della BCEAO: «+400 milioni di euro». Per contro, se importa dall’area euro attrezzature per un valore di 400 milioni di euro, il conto operativo viene addebitato per il medesimo importo: «-400 milioni di euro».

In teoria, la centralizzazione delle riserve sarebbe la contropartita della garanzia di convertibilità illimitata offerta – sulla carta – dalla Francia ai paesi della zona del franco. Questa garanzia prevede che in caso di carenza di valuta estera, il Tesoro francese è tenuto a concedere un anticipo alle banche centrali della zona del franco per evitare una svalutazione dei franchi CFA. Ma si tratta di una garanzia perlopiù fasulla. Parigi, infatti, ha introdotto delle regole stringenti che rendono improbabile l’insorgere di una situazione da “zero riserve valutarie” (tra cui una serie di meccanismi automatici che scattano in caso di scarsità di riserve). A ben vedere, come notano Pigeaud e Sylla, non è la Francia a garantire la convertibilità; sono piuttosto le riserve dei grandi paesi esportatori, come la Costa d’Avorio e il Camerun, a compensare la scarsità di riserve di paesi come la Repubblica Centrafricana e il Togo, che hanno meno risorse.

Non a caso, i conti operativi delle banche centrali della zona del franco sono in attivo praticamente da sempre (a parte un breve periodo in cui sono andati a debito tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta). Come se non bastasse, se è vero che quando i conti sono in attivo il Tesoro francese versa degli interessi alle banche centrali della zona del franco, è altrettanto vero che parliamo di tassi irrisori. Al punto che tra il 2010 e il 2013 queste hanno ricevuto dal Tesoro francese interessi reali negativi, essendo il tasso di prestito marginale della BCE, nello stesso periodo, inferiore al tasso di inflazione nell’area dell’euro. Ciò significa che hanno perso denaro e che anzi «hanno pagato il Tesoro francese per tenere le loro “valute”», come disse Joseph Tchundjang Pouemi. Oltre al danno la beffa.

Ma il vero “privilegio esorbitante” che la Francia trae dal sistema dei conti operativi è un altro. Grazie ad esso, come spiegano Pigeaud e Sylla, «la Banca di Francia non ha bisogno di reperire dollari quando un importatore francese acquista del cotone burkinabé del valore, per esempio, di 1 milione di dollari. Piuttosto, attraverso una semplice scrittura contabile, si limita ad accreditare l’equivalente in euro di questo milione di dollari sul conto operativo della BCEAO. Questo offre alla Francia un grande privilegio: quello di pagare le proprie importazioni dalla zona del franco con la propria moneta (prima il franco, ora l’euro), senza avere bisogno di passare per altre valute». Stiamo parlando di un ampio ventaglio di risorse agricole, forestali, minerarie ed energetiche, tra cui l’uranio, di cruciale importanza per l’economia francese. In breve, scrivono gli autori, «il franco CFA continua la sua missione originaria, cioè quella di servire gli interessi economici della Francia. Ciò non dovrebbe sorprendere: esso è stato creato per questo scopo e dalla sua nascita non ha mai subìto modifiche sostanziali. I due principali beneficiari continuano a essere lo Stato francese e le multinazionali francesi, i cui interessi sono strettamente legati».

Un ostacolo allo sviluppo

E che dire dei presunti benefici che il sistema CFA arrecherebbe agli Stati africani che ne fanno parte? Secondo i suoi difensori, il franco CFA avrebbe favorito lo sviluppo economico dei paesi che ne fanno parte, facilitando «l’integrazione economica regionale» e offrendo una «stabilità macroeconomica» che ne favorisce l’attrattività. In realtà, scrivono Pigeaud e Sylla, il sistema CFA infligge «quattro importanti handicap» ai paesi che ne fanno parte.

I primi due handicap sono ovviamente, il tasso di cambio fisso e l’ancoraggio delle valute locali all’euro. Come è noto, un paese che ancóra la propria moneta a un’altra non può avere una politica monetaria autonoma. L’UEMOA e la CEMAC, due unioni valutarie composte principalmente da paesi poveri, sono di fatto subordinate alla politica monetaria di un’altra unione valutaria, la zona euro, che riunisce paesi ricchi con priorità e bisogni totalmente diversi. Le conseguenze di ciò sono state ben spiegate dal premio Nobel per l’economia Robert Mundell nel 1997:


Se un piccolo paese fissa unilateralmente la propria valuta a un vicino più grande, in realtà sta trasferendo la propria sovranità in termini di politica economica a quel vicino più grande. Questo paese perde la propria sovranità perché non controlla più il proprio destino monetario; il paese più grande, invece, guadagna sovranità perché gestisce un’area valutaria più ampia e guadagna un maggiore “peso” nel sistema monetario internazionale.

Inoltre, come nell’eurozona sappiamo fin troppo bene, il cambio fisso significa che

i quindici paesi membri della zona del franco, presi individualmente, non hanno la possibilità di utilizzare il tasso di cambio per ammortizzare gli shock che colpiscono l’economia o per migliorare la competitività di prezzo dei prodotti locali. E questo in un continente in cui gli shock – politici (colpi di Stato, guerre, tensioni sociali ecc.), climatici (variazioni pluviometriche, siccità, inondazioni ecc.) ed economici (volatilità dei prezzi dei prodotti primari, dei tassi di interesse del debito estero, dei flussi di capitale ecc.) – sono all’ordine del giorno. Per far fronte a degli shock avversi, dunque, i paesi del franco hanno un’unica soluzione, in assenza di trasferimenti di bilancio: la “svalutazione interna”, cioè un adeguamento dei prezzi interni che passa attraverso la riduzione dei redditi da lavoro e della spesa pubblica, l’aumento delle imposte e infine il declino dell’attività economica.

Sono le stesse statistiche dell’FMI a confermare come il tasso di cambio fisso si sia rivelata una scelta funesta per i paesi africani: dal 2000, i paesi dell’Africa subsahariana che operano in un regime di cambio fisso hanno registrato una crescita economica che va da 1 a 2 punti in meno rispetto ai paesi con un tasso di cambio flessibile. Questo scarto è dovuto in particolare «alla minore crescita dei paesi membri della zona del franco», afferma il Fondo monetario.

Da questi primi due handicap discende il terzo handicap della zona del franco: il sottofinanziamento delle economie della zona del franco. Al fine di evitare una caduta duratura del livello delle loro attività estere, che metterebbe a repentaglio la parità fissa, le banche centrali della zona del franco devono infatti limitare la crescita del credito interno (il volume di prestiti bancari messi a disposizione di governi, imprese e famiglie). Inoltre, dal 1999, i paesi della zona del franco sono soggetti agli stessi vincoli di bilancio dei paesi dell’eurozona in termini di deficit e di debito pubblico, nonché, ovviamente, al divieto di finanziamento monetario degli Stati.

«Il franco CFA svolge unicamente una funzione di stabilizzazione e non svolge alcun ruolo attivo nell’economia», ha osservato l’economista Makhtar Diouf nel 2002. Una delle conseguenze è che i paesi africani devono rivolgersi all’estero – spesso e volentieri alla Francia stessa – se vogliono finanziare il proprio sviluppo, contraendo prestiti in valuta estera a tassi molto onerosi. Il meccanismo, dunque, non fa che stringere il cappio del debito estero che attanaglia i paesi africani, con tutto il dramma umano che ne consegue. Come riportano Pigeaud e Sylla, «ogni dollaro speso in Africa per il servizio del debito si traduce in una riduzione del 29 per cento del bilancio sanitario (che, in termini più tragici, può essere tradotto economicamente come segue: ogni 140.000 dollari destinati al servizio del debito, un bambino muore)».

Questo debole finanziamento delle economie penalizza chiaramente la crescita economica, cosa che ammettono anche economisti favorevoli al franco CFA come Sylviane Guillaumont Jeanneney: «La debole crescita dell’UEMOA è in parte spiegata da un tasso di investimento inferiore rispetto ad altre regioni dell’Africa». L’economista senegalese Demba Moussa Dembélé, critico del sistema CFA, è più severo. A causa della parità fissa e della politica restrittiva della BCEAO, spiega, «siamo soggetti agli imperativi della Banca centrale europea, che è ossessionata dalla disciplina fiscale e dalla lotta contro l’inflazione, mentre le priorità dei nostri paesi sottosviluppati dovrebbero essere l’occupazione, gli investimenti in capacità produttiva, la creazione di infrastrutture. Ciò implica una maggiore distribuzione del credito al settore privato e al settore pubblico». L’economista togolese Kako Nubukpo condivide questo punto di vista: «Non può esserci sviluppo senza credito, e una maggiore inflazione incoraggerebbe gli investimenti. C’è una contraddizione tra il discorso sullo sviluppo, che richiede finanziamenti significativi, e il sistema del franco CFA. Le nostre politiche monetarie non tengono conto dell’obiettivo di crescita».

Questa politica estremamente restrittiva viene spesso giustificata col fatto che la creazione di moneta nei paesi poveri che importano quasi tutto dall’estero rischia di esaurire le loro riserve valutarie e quindi di ridurre ulteriormente il valore delle loro valute. Ma la realtà, notano gli autori, è che molti paesi africani importano grandi quantità di prodotti alimentari che potrebbero produrre localmente. Quello che manca, il più delle volte, sono i mezzi finanziari per sviluppare i loro sistemi agricoli e la protezione commerciale contro le importazioni straniere. In questo senso, se i paesi africani finanziassero lo sviluppo della propria agricoltura, non ridurrebbero le loro riserve valutarie, ma, al contrario, risparmierebbero denaro. Purtroppo il sistema CFA impedisce qualunque politica di mobilitazione delle risorse interne.

Infine, l’ultimo handicap: la libertà di movimento di movimento dei capitali. Si tratta, scrivono Pigeaud e Sylla, di «un fattore che ostacola considerevolmente lo sviluppo dei paesi interessati, traducendosi il più delle volte in un dissanguamento finanziario che, per certi versi, ricorda quello dell’economia della tratta degli schiavi. Quando settori economici fondamentali sono sotto il controllo del capitale straniero, come è il caso nella maggior parte dei paesi della zona del franco, la libertà di movimento dei capitali agisce come un meccanismo di drenaggio delle risorse africane verso il resto del mondo: un’autorizzazione al saccheggio». Questo fenomeno è osservabile soprattutto nei paesi maggiormente dotati di risorse naturali: Costa d’Avorio, Camerun, Congo, Gabon e Guinea Equatoriale. Basti pensare che tra il 2000 e il 2009 i trasferimenti netti di reddito verso il resto del mondo – che includono i profitti e i dividendi delle multinazionali operanti in quei paesi – ammontavano all’incirca al 43 per cento del PIL per la Guinea Equatoriale e al 30 per cento del PIL per il Congo.

Il risultato di questi “quattro handicap” è che, sebbene alcuni paesi della zona del franco (soprattutto quelli più ricchi di materie prime) abbiano registrato un tasso di crescita annuo del PIL piuttosto poderoso negli ultimi anni, un’analisi delle statistiche a lungo termine dimostra che il PIL reale pro capite – o “reddito medio” – della maggior parte dei paesi della zona del franco è pari o inferiore (in alcuni casi di un terzo o di quarto) a quello registrato negli anni Settanta o Sessanta. Anche un’analisi degli indicatori relativi alla salute e all’istruzione conferma la conclusione secondo cui il progresso socioeconomico nella zona del franco è stato decisamente limitato: 12 dei 15 Stati africani della zona del franco sono classificati tra i “paesi a basso sviluppo umano”, l’ultima categoria dell’indice di sviluppo umano (HDI, Human Development Index) sviluppato dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e basato sul reddito nazionale lordo pro capite, l’aspettativa di vita alla nascita e il livello di scolarizzazione. Nel 2015, gli ultimi quattro posti nella classifica HDI sono andati al Burkina Faso, al Ciad, al Niger e alla Repubblica Centrafricana, tutti paesi che appartengono alla zona del franco. Inoltre, dieci Stati della zona del franco fanno parte di quelli che le Nazioni Unite chiamano i “paesi meno sviluppati”, cioè paesi la cui popolazione è, in linea di principio, inferiore a settantacinque milioni di abitanti, che hanno un reddito nazionale lordo pro capite basso, un basso livello di sviluppo umano e un’elevata vulnerabilità economica.

«Ovviamente, il franco CFA non è l’unica causa di questo sottosviluppo generale e altri paesi africani non se la sono necessariamente “cavata meglio”», notano Pigeaud e Sylla. «Ma è indiscutibile che l’argomento secondo cui il franco CFA abbia “favorito” la crescita e lo sviluppo è falso»:


In tutti i paesi in cui circolano i franchi CFA e delle Comore, il sottosviluppo del potenziale umano e delle capacità produttive è la norma. Il sistema CFA non ha stimolato né l’integrazione commerciale tra i suoi membri, né il loro sviluppo economico, né la loro attrattività economica. Al contrario, ha privato gli Stati interessati della possibilità di condurre una politica monetaria autonoma, ha paralizzato le dinamiche produttive attraverso la limitazione dei crediti bancari, ha penalizzato la competitività dei prezzi delle produzioni locali attraverso tassi di cambio strutturalmente sopravvalutati e ha facilitato forme di dissanguamento finanziario destabilizzanti e molto costose sul piano sociale.

Le conseguenze politiche della privazione di sovranità monetaria

Alla luce di quanto detto fin qui, ci si potrebbe chiedere perché gli Stati della zona del franco non abbandonino il sistema CFA. Una prima risposta è che ancora oggi la Francia non si fa alcuno scrupolo a utilizzare tutti gli strumenti di pressione a sua disposizione contro quei paesi che osino mettere in discussione il sistema CFA. Un esempio particolarmente eclatante di ciò, riportato da Pigeaud e Sylla, si è avuto recentemente in Costa d’Avorio. Tutto ebbe inizio in seguito alle elezioni presidenziali del 2010, quando il paese si ritrovò di fatto con due presidenti. Il primo, Laurent Gbagbo, il presidente uscente, era stato riconosciuto come il legittimo vincitore delle elezioni dal Consiglio costituzionale ivoriano e aveva quindi mantenuto il potere e il controllo dell’amministrazione statale; il secondo, Alassane Ouattara, era invece considerato il vincitore dalla “comunità internazionale”. Volendo vedere Ouattara a capo del paese, il presidente francese Nicolas Sarkozy, suo amico e principale sostenitore, attivò vari dispositivi e in particolare quello della zona del franco. «L’idea delle autorità francesi – scrivono gli autori – era di paralizzare l’amministrazione ivoriana per spingere Gbagbo a dimettersi».

Per prima cosa, su istruzione di Parigi, la BCEAO – cioè la banca centrale della CEMAC, l’unione monetaria di cui fa parte la Costa d’Avorio – iniziò a impedire al governo ivoriano di accedere ai propri conti presso la BCEAO. Inoltre, chiuse le filiali ivoriane della BCEAO. Il governo riuscì però a riaprirle tramite una misura di precettazione del personale; a quel punto, la BCEAO attivò un software per bloccarne il funzionamento. Gli amministratori della banca costrinsero anche il suo governatore a rassegnare le dimissioni, accusandolo di essere troppo compiacente con le autorità ivoriane. Poi, nel febbraio del 2011, di fronte al rifiuto di Gbagbo di cedere alle pressioni internazionali, il ministero dell’Economia e delle Finanze francese chiese alle banche francesi operanti in Costa d’Avorio di cessare di cessare le loro attività nel paese. Allo stesso tempo, la BCEAO minacciò di sanzionare le altre banche se persistevano nel voler collaborare con il governo di Laurent Gbagbo.

Dal momento che non era possibile ordinare alle istituzioni finanziarie non francesi di cessare le loro attività, la Francia passò al prossimo stadio. Mobilitò la sua arma invisibile: il conto operativo. Con l’assistenza della BCEAO, il ministero delle Finanze francese sospese le operazioni di pagamento e di cambio della Costa d’Avorio, che dovevano passare attraverso il conto operativo della BCEAO. In questo modo, tutte le transazioni commerciali e finanziarie tra la Costa d’Avorio e il resto del mondo furono bloccate. Le imprese ivoriane si ritrovarono impossibilitate a esportare e a importare. Questo sabotaggio impedì inoltre alle rappresentanze diplomatiche ivoriane di ricevere i loro stanziamenti di bilancio. In questo modo, scrivono Pigeaud e Sylla, «le autorità francesi dimostrarono che il sistema del conto operativo poteva diventare un formidabile strumento di repressione: attraverso di esso, la Francia fu in grado di organizzare un embargo finanziario spaventosamente efficace».

Justin Koné Katinan, il ministro del Bilancio di Laurent Gbagbo durante quella crisi, avrebbe poi raccontato nel 2013: «Ho visto la Franciafrica con i miei occhi. … Ho visto come i nostri sistemi finanziari continuino a essere totalmente sotto il dominio della Francia, nell’interesse esclusivo della Francia. Ho visto come un singolo funzionario in Francia possa bloccare un intero paese».

Di fronte all’embargo finanziario della Francia, l’amministrazione ivoriana cominciò ad organizzarsi per per creare una propria moneta nazionale e portare la Costa d’Avorio fuori dalla zona del franco, l’unico modo per aggirare la trappola della BCEAO. A quel punto la Francia, per evitare di essere battuta sul suo stesso terreno, passò alle maniere forti: utilizzò le proprie forze armate presenti in Costa d’Avorio – così come in molti altri paesi della zona del franco – per rovesciare il governo di Gbagbo. Dopo aver bombardato per diversi giorni le caserme militari, il palazzo presidenziale e la residenza ufficiale del capo dello Stato della Costa d’Avorio, i soldati della base francese di Abidjan lanciarono, l’11 aprile del 2011, un attacco su larga scala contro l’esercito ivoriano. Questa operazione si concluse lo stesso giorno con l’arresto di Laurent Gbagbo. Fine della storia.

Uno status quo insostenibile

L’episodio sopracitato fa intendere quanto sia ridicola l’argomentazione secondo cui i paesi della zona del franco aderirebbero “volontariamente” alla zona del franco e potrebbero andarsene in qualunque momento. Ciò detto, è indubbio che le élite africane della zona del franco sostengano, con poche eccezioni, il sistema CFA. Questo è perfettamente comprensibile. Dopotutto, queste «sono salite al potere – e continuano a esercitarlo – con il sostegno dell’Eliseo», scrivono Pigeaud e Sylla. I dirigenti africani sanno che finché continueranno a facilitare le operazioni dello Stato francese e a non sfidare il franco CFA, godranno, per esempio, di una protezione relativa – anche militare, come abbiamo visto in Costa d’Avorio – contro i loro oppositori. A queste condizioni, è ovvio che non hanno alcun incentivo a migliorare la sorte dei loro concittadini, poiché sanno che rimarranno comunque al potere, con o senza il loro sostegno.

Inoltre, spiegano sempre gli autori, pur essendo architettato per servire gli interessi francesi, il sistema CFA offre certi benefici economici ad alcuni gruppi sociali africani. L’ancoraggio del franco CFA all’euro, una valuta forte, consente agli importatori dei paesi africani, ad esempio, di acquistare a un prezzo vantaggioso prodotti che permettono loro di competere facilmente con le produzioni locali, che spesso non sono molto competitive e godono di una scarsa protezione. Allo stesso tempo, fornisce alle classi medie e benestanti locali un potere d’acquisto internazionale “artificiale” che dà loro l’opportunità di avere accesso agli stessi beni e servizi delle loro controparti occidentali. Infine, la libertà di movimento dei capitali consente alle élite facoltose del posto di investire le loro fortune, più o meno legalmente, in Europa e altrove.

Tuttavia, come detto all’inizio, «da qualche anno a questa parte, il franco CFA ha smesso di essere una questione dibattuta unicamente dagli esperti: è uscito dai corridoi delle istituzioni finanziarie per affacciarsi sulle strade e sulle piazze. Oggi è oggetto di articoli, manifestazioni, spettacoli televisivi e conferenze nel continente africano e in Francia. Le richieste di porre fine al franco CFA si stanno moltiplicando e la pressione sta aumentando». Sono sempre di più gli economisti, gli intellettuali, gli artisti e i movimenti sociali africani che chiedono la fine del colonialismo monetario. Le loro argomentazioni, notano gli autori, «hanno una certa eco nell’opinione pubblica, sempre più consapevole che, senza indipendenza monetaria, gli Stati della zona del franco continueranno a rimanere assoggettati alla Francia».

«Senza conoscere necessariamente tutti i dettagli tecnici del caso – scrivono – un numero crescente di cittadini africani si sta rendendo conto del fatto che sarà impossibile determinare liberamente il proprio destino senza una reale sovranità monetaria». Un monito su cui anche i popoli dell’eurozona farebbero bene a riflettere.

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IDEE 1

Da molto ormai la condizione sociale attuale impone la nefanda convinzione per cui quella esistente sia l’unica soluzione di organizzazione possibile. L’idea dell’alternativa appare sempre più come caratteristica mentale di sognatori o visionari, che camminano in giardini fioriti troppo lontani dalla realtà effettiva delle cose. Certamente per la sicurezza delle proprietà (materiali e intellettuali) dei singoli è essenziale che si possa dare dell’utopista a chi si muove nel tentativo del cambiamento, e nel mondo della produzione e del mercato è essenziale far lievitare questa visione del mondo per avere via libera a tutte le speculazioni previste ed occasionali. A fronte di tanti studi critici sul funzionamento sociale e a fronte, soprattutto, di tanti governi di sinistra in Europa, sta passando una rappresentazione sociale del modo di essere in comunità, oggi comunità mondo, di un solo tipo: spengleriana. La società è cioè un organismo unico e le manifestazioni che la rendono viva, vale a dire quelle artistiche, scientifiche, filosofiche, ecc., non hanno nessun significato al di fuori di essa e sono necessarie solamente al suo mantenimento costante nel tempo. Non esiste nessuna possibilità di scelta e nessun cambiamento di fronte al destino che la anima. L’uomo allora deve possedere l’abilità e la sottomissione necessarie, una volta riconosciuto quale effettivamente sia il destino della società in cui egli si dibatte, a seguirne la direzione e godere del successo eventuale che questa pratica può consegnargli. “Non abbiamo la libertà di realizzare questo o quello, ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla; ed un compito che la necessità della storia ha posto verrà risolto con il singolo o contro di esso.”i, ora, ciò che è necessario è ciò che è dettato dal destino dell’organismo sociale. 

Questa idea sembra essere l’idea dominante oggi. 

(continua…)

iSpengler, ‘Il Tramonto dell’Occidente. Abbozzo di una Morfologia della storia del Mondo’.

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